Chi non ha mai sentito dire che “il sugo della nonna era unico”, o che “a casa si mangia meglio che al ristorante”? Non si tratta solo di nostalgia o preferenze personali.
La psicologia ha molto da dire su questo fenomeno. Studi e ricerche hanno evidenziato che il cibo fatto in casa viene spesso percepito come più gustoso, anche se, oggettivamente, non sempre lo è. Ma perché succede? Dietro questa percezione si nascondono meccanismi emotivi, affettivi e culturali che influenzano in profondità la nostra esperienza del gusto. La nostra mente, infatti, non valuta solo sapori e profumi: considera anche il contesto, l’atmosfera, i ricordi e i significati associati a ciò che abbiamo nel piatto.
Il ruolo delle emozioni e dei ricordi nella percezione del gusto
Secondo uno studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca, quando cuciniamo in casa o assistiamo alla preparazione del cibo, il pasto assume un valore simbolico. Non stiamo semplicemente “nutrendoci”, ma ci prendiamo cura di noi stessi e degli altri. Questo elemento relazionale, fatto di gesti, attenzioni e condivisione, modifica la percezione sensoriale: il gusto ci sembra più intenso e appagante. Non è un caso se, durante i mesi di lockdown, molte persone hanno riscoperto il piacere di cucinare in famiglia. Preparare il pane, una torta o anche un semplice piatto di pasta ha significato riscoprire una dimensione emotiva legata al cibo, qualcosa che al ristorante difficilmente si vive. In quel contesto, il cibo è diventato rifugio, connessione e sicurezza.
Anche l’Università di Padova ha contribuito a questa riflessione. I suoi studi hanno dimostrato che le emozioni positive amplificano la percezione del gusto. Mangiare in un ambiente che ci fa sentire rilassati, amati e a nostro agio — come la casa — rende i sapori più intensi e gratificanti. Al contrario, nei ristoranti, la presenza di estranei, il rumore e persino la necessità di fare conversazione possono generare un certo stress, che riduce il piacere del pasto.
Tradizione, identità e controllo dell’ambiente
Un altro fattore importante è la connessione tra cibo e identità personale. Brillat-Savarin, nel suo storico libro La fisiologia del gusto, afferma: “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Il cibo cucinato in casa, spesso legato a ricette tramandate e ingredienti familiari, diventa parte della nostra storia. Ci ricorda chi siamo, da dove veniamo, e ci dà una sensazione di continuità e radicamento. C’è poi un aspetto più pratico, ma altrettanto influente: l’ambiente domestico è sotto il nostro controllo. Uno studio pubblicato sul Journal of Marketing Research ha rilevato che persino la luce influisce sulla percezione del gusto. A casa possiamo decidere l’illuminazione, il volume della musica, il tempo da dedicare al pasto. Tutto questo contribuisce a creare un’esperienza sensoriale più piacevole, che ci fa sembrare il cibo più buono.
Infine, come osservato dallo psicologo e chef Omar Busi, la familiarità con gli ingredienti e con i gesti della cucina crea un senso di sicurezza che il ristorante, con le sue proposte meno prevedibili, raramente offre. Questa prevedibilità non è noia, ma un conforto psicologico che rende il cibo fatto in casa più rassicurante e gradito.
La prossima volta che ci troveremo a dire che “quel piatto fatto in casa era più buono”, potremo riconoscere che non stiamo solo parlando di sapore. Stiamo parlando di memoria, emozioni, rituali familiari e di un ambiente che ci permette di essere completamente a nostro agio. Ecco perché la cucina casalinga riesce a toccare corde profonde della nostra psiche, offrendo un’esperienza che va oltre il gusto. Il cibo, insomma, non nutre solo il corpo. Nutre anche il nostro mondo interiore. E forse, proprio per questo, quello che cuciniamo a casa ci sembrerà sempre un po’ più buono.