Molti di noi si sono trovati almeno una volta davanti a un pacchetto di biscotti, pensando di mangiarne solo uno e finendo per svuotarlo.
Ma questo comportamento può essere davvero considerato una forma di dipendenza? Oppure stiamo semplicemente parlando di abitudini scorrette o di mancanza di autocontrollo? La psicologia e le neuroscienze, da anni, cercano di dare una risposta a questa domanda. Il primo a parlare esplicitamente di dipendenza da cibo fu il medico Theron Randolph nel 1956. Sostenne che certi alimenti, in particolare quelli ricchi di zuccheri, grassi e carboidrati raffinati, potessero innescare una risposta simile a quella che si osserva nelle dipendenze da sostanze come l’alcol o le droghe. Un’ipotesi che allora sembrava azzardata, ma che oggi trova un crescente supporto scientifico.
Cosa accade nel cervello quando mangiamo
Gli studi più recenti, come quelli di Nicole Avena e colleghi (2008), hanno osservato in modelli animali che il consumo ripetuto di cibi molto palatabili, cioè saporiti, induce modificazioni nei circuiti cerebrali della ricompensa. In particolare, si osserva una riduzione dei recettori della dopamina, lo stesso meccanismo che si verifica nell’abuso di sostanze stupefacenti. Questo spiegherebbe perché alcune persone non riescono a smettere di mangiare certi alimenti, anche quando ne sono consapevolmente frustrate. Negli esseri umani, strumenti come la Yale Food Addiction Scale (Gearhardt et al., 2011) hanno permesso di identificare sintomi specifici: voglia incontrollabile, perdita di controllo, sintomi da astinenza e tolleranza. Chi mostra questi segnali ha spesso difficoltà a interrompere l’assunzione di determinati cibi, anche di fronte a conseguenze fisiche o psicologiche negative.
Ma non si tratta solo di biochimica. Anche lo stress e le emozioni negative giocano un ruolo fondamentale. Secondo Sinha e Jastreboff (2013), in situazioni di stress acuto o cronico aumenta la tendenza a cercare cibi calorici e gratificanti. È un modo per sedare ansie e paure, un meccanismo di compensazione emotiva che può diventare ricorrente e problematico. La psicologa Piccinni (2020) ha infatti rilevato un forte legame tra food addiction, disturbi dell’umore e depressione. Non tutti gli esperti sono d’accordo nel definire la food addiction come una vera dipendenza. Alcuni la considerano una forma estrema di disturbo del comportamento alimentare, più simile al binge eating disorder (BED). Eppure, le ricerche di De Vries e Meule (2016) mostrano che la food addiction presenta tratti distintivi: in particolare, l’ossessione per cibi specifici, spesso ricchi di zucchero o grassi.
Anche la psicoterapeuta Mingardi (2024) invita alla prudenza. Secondo lei, la dipendenza non deriva solo dal cibo, ma anche da fattori culturali, familiari e relazionali. Non basta quindi limitare il consumo di certi alimenti: bisogna capire le radici emotive del problema. Una critica importante riguarda la necessità biologica del cibo. A differenza di sostanze come l’alcol, non possiamo eliminare il cibo dalla nostra vita. Questo rende più complesso distinguere un comportamento compulsivo da un bisogno naturale.
Quanto è diffusa e come affrontarla
Le stime parlano chiaro: fino all’11,4% della popolazione generale mostra sintomi riconducibili a una dipendenza da cibo. Questa percentuale aumenta tra le persone obese, dove può raggiungere anche il 40%. Rossella Bossa (2024) ha recentemente identificato biomarcatori specifici, come alterazioni nei neuropeptidi che regolano la fame, che aiutano a distinguere l’obesità legata alla food addiction da altre forme. Anche se il concetto resta dibattuto, è evidente che molti comportamenti alimentari disfunzionali sono radicati in meccanismi psicologici profondi. Interventi mirati, come la terapia cognitivo-comportamentale o la mindfulness, possono aiutare a gestire le emozioni che stanno dietro al rapporto con il cibo.
La verità, forse, sta nel mezzo. Alcuni alimenti, specie quelli ultra-processati, sembrano progettati per attivare risposte cerebrali potenti e ripetitive, ma il contesto emotivo e personale resta centrale. Più che chiederci se il cibo possa creare dipendenza, dovremmo chiederci cosa stiamo cercando davvero ogni volta che apriamo il frigorifero.