Attenzione a una particolare dicitura sulla busta paga: ecco quando potrebbe essere un problema e perché il datore, in questo caso, commetterebbe un reato penale.
Nella busta paga tipica del nostro Paese, le voci presenti si distinguono in due categorie principali: quelle che prevedono il versamento di contributi previdenziali e quelle che ne sono escluse. Le prime comprendono tutte le somme classificate come reddito da lavoro dipendente. Tra queste rientrano lo stipendio base, lo straordinario, i premi, le indennità , le mensilità aggiuntive e le ferie effettivamente godute. Queste voci alimentano l’imponibile previdenziale, la base su cui vengono calcolati i contributi dovuti all’INPS, all’INAIL e agli altri enti preposti a coperture come pensione, maternità , malattia e disoccupazione. I contributi sono suddivisi tra una quota a carico del lavoratore, trattenuta in busta paga, e una a carico dell’azienda. Quest’ultima non è visibile nel cedolino, ma è comunque versata. L’imponibile previdenziale, di solito, è indicato nella parte centrale del documento.
Esistono però anche voci non soggette a contribuzione, come i rimborsi spese documentati, alcune indennità di trasferta, gli assegni familiari, i periodi di malattia o maternità pagati direttamente dall’INPS, nonché il TFR o le somme una tantum come gli incentivi all’esodo. La distinzione tra voci imponibili e non è cruciale: solo le prime determinano il diritto e l’importo delle future prestazioni previdenziali. Pertanto, ciò che appare in busta paga come imponibile ha un impatto diretto sulla carriera assicurativa e sul futuro pensionistico del lavoratore. In un caso particolare, poi, riconoscere una determinata voce in busta paga, facente parte della categoria delle voci non imponibili, può essere di enorme importanza per il lavoratore.
Busta paga: perché devi fare attenzione a questa voce e in quale caso
È la voce ‘trasferta Italia‘. Questa voce in busta paga indica un’indennità riconosciuta al lavoratore inviato temporaneamente, su richiesta aziendale, fuori dalla sede abituale ma all’interno del territorio nazionale. È generalmente esente da contributi, almeno fino a 46,48 euro al giorno per i rimborsi forfettari. Quando essa viene pagata per un’effettiva trasferta in Italia, non c’è problema: il datore sta effettivamente pagando quello che c’è scritto sulla busta paga. Quando, però, il lavoratore non ha effettuato trasferte, o ne ha effettuate meno di quante ne sono state indicate, e trova una dicitura come questa, o anche simile – es. ‘Trasferta’ – in busta paga, allora deve preoccuparsi.
A rivelarlo, è stata una nota esperta di diritto del lavoro, l’avvocata Silvia Pettineo. L’esperta ha spiegato, cioè, che la pratica di indicare in busta paga false trasferte costituisce una registrazione infedele, poiché non corrisponde ad alcuna reale prestazione lavorativa svolta fuori sede. Queste somme vengono erogate con il solo scopo di integrare la retribuzione in modo non soggetto a contribuzione, approfittando di un regime fiscale agevolato e alterando così l’imponibile contributivo. Si tratta di una condotta vietata dalla normativa vigente, come precisato anche dall’INPS e dal Ministero del Lavoro in note ufficiali del 2016. Quando l’indennità di trasferta nasconde in realtà il pagamento di straordinari o altre voci retributive dovute, si configura un intento elusivo.
Perché potrebbe danneggiarvi molto
In questi casi, secondo quanto previsto dall’art. 39 del D.L. 112/2008 e dal D. Lgs. 151/2015, vi è una chiara difformità tra quanto realmente accaduto e quanto risulta registrato nel Libro Unico del Lavoro. Questo comportamento, oltre a essere illegittimo e passibile di sanzioni amministrative, e in alcuni casi anche penali, determina un danno concreto e rilevante alla posizione assicurativa e pensionistica del lavoratore. Come spiega l’esperta, infatti, in questo modo il datore di lavoro, sulla voce ‘trasferta’, non paga le tasse e non paga i contributi. E, dunque, la pensione del lavoratore risulterà automaticamente più bassa. Ogni somma che non rientra nell’imponibile previdenziale rappresenta, infatti, una mancata contribuzione, che si traduce in una minore tutela futura per chi lavora. In questi casi, però, il datore può essere denunciato all’INPS, o all’Ispettorato del Lavoro, anche al fine di recuperare i contributi persi.