Ti capita di preoccuparti sempre per gli altri? Questo atteggiamento è spiegato in modo semplice dalla psicologia. Ecco tutto quello che devi sapere e cosa è bene fare in queste situazioni.
C’è chi non riesce a dormire perché ha paura che una persona cara stia soffrendo. Chi si tormenta per un commento detto in fretta, temendo di aver ferito qualcuno. E poi c’è chi si scusa anche quando non ha fatto nulla di sbagliato, chi si sente in colpa per aver detto “no”, chi si preoccupa se gli altri sono arrabbiati, tristi, o semplicemente silenziosi. Questo atteggiamento, più diffuso di quanto si creda, non è semplice gentilezza né una forma nobile di altruismo. È una dinamica psicologica complessa, che affonda le radici nella nostra storia personale, nella cultura in cui viviamo e nei meccanismi profondi della mente.
Molto spesso viviamo con il desiderio e il continuo bisogno di voler aiutare gli altri. Vedere le persone che amiamo felici, ci fa sentire in pace con noi stessi. Tutto questo però, se fatto di continuo, finisce per diventare un atteggiamento totalizzante. Ci dimentichiamo in parte, di ciò che serve a noi e finiamo per preoccuparci solo di far sorridere chi è intorno a noi. Ma come mai si vive questo tipo di sensazione? La psicologia ha una spiegazione sorprendente. In questo modo potrai finalmente chiarire le tue domande e analizzare un aspetto della tua vita che, in parte, ti accomuna a tantissime altre persone.
Quando il senso di colpa non ti lascia andare mai: perché succede e come agire
Molte persone vivono con un senso di responsabilità eccessivo nei confronti delle emozioni altrui. Sentono di dover sempre aggiustare tutto, prendersi carico del malessere degli altri, fare da cuscinetto alle tensioni familiari o sociali. Anche quando non è compito loro, anche quando l’origine del problema non le riguarda. È un atteggiamento che logora, che fa sentire inadeguati, che alimenta un costante senso di colpa. Ma perché succede? La psicologia spiega che uno dei motivi principali è l’educazione emotiva ricevuta nei primi anni di vita. Se un bambino cresce in un ambiente in cui viene lodato solo quando si comporta “bene” o si prende cura degli altri, potrebbe interiorizzare l’idea che il proprio valore dipenda dal grado di soddisfazione altrui. Così, diventa un adulto che cerca costantemente di meritare amore. Nel contesto familiare, questa tendenza si manifesta con particolare forza. È frequente che in alcune famiglie si instauri una sorta di “dovere emotivo” nei confronti dei genitori o dei fratelli. Alcuni figli crescono con il compito implicito di far felici mamma e papà, di non deludere, di tenere unita la famiglia, anche a costo di annullare i propri bisogni.
Nel mondo delle relazioni sentimentali, il meccanismo diventa ancora più insidioso. Si tende a pensare che l’amore vero sia sinonimo di sacrificio. E così ci si carica addosso la sofferenza del partner, si giustificano comportamenti tossici con la scusa della fragilità altrui, si tollera l’intollerabile pur di non essere causa di dolore. Ma in questo schema, chi si preoccupa costantemente per l’altro rischia di perdersi. Anche in ambito professionale, il fenomeno è sorprendentemente diffuso. Chi soffre di una forma di “iper-responsabilità emotiva” tende a sentirsi in colpa se un collega è scontento, se un superiore è deluso, se un cliente è frustrato. Fortunatamente, è possibile interrompere questo ciclo. Il primo passo è riconoscere che preoccuparsi per gli altri non significa dover risolvere tutto. L’empatia non deve trasformarsi in una gabbia emotiva. Sentirsi in colpa per ogni tensione non è segno di bontà, ma di una ferita interiore non ancora guarita.