Essere psicologi non significa essere immuni dalle difficoltà emotive. Al contrario, proprio perché quotidianamente immersi nei vissuti degli altri, i professionisti della salute mentale devono sviluppare una solida capacità di autoregolazione. Ma come affrontano realmente le proprie emozioni, soprattutto nei momenti in cui si trovano dall’altra parte del divano, ovvero nel loro vissuto personale?
Chi lavora con la mente umana sa che non esistono scorciatoie. La regolazione emotiva non è mai un atto istantaneo, ma un processo fatto di consapevolezza, pratica e attenzione costante. Ecco allora come molti psicologi gestiscono le proprie emozioni quando il mondo interno si fa turbolento.
La consapevolezza come primo passo
Alla base di ogni percorso di equilibrio emotivo c’è una capacità che può sembrare semplice, ma che richiede dedizione: la consapevolezza. Non si tratta solo di sapere cosa si prova, ma di imparare a stare con quell’emozione, anche quando è scomoda. In questo senso, la mindfulness è uno strumento privilegiato. Gli psicologi la utilizzano non solo come tecnica per i propri pazienti, ma anche come modalità per riconnettersi con il momento presente e osservare le emozioni senza giudicarle.
Quando si accorgono che un pensiero ansiogeno sta prendendo il sopravvento o che un’emozione intensa sta influenzando il loro comportamento, si fermano. Anche solo pochi secondi di attenzione consapevole possono cambiare l’intera direzione di una reazione. È un gesto piccolo, silenzioso, ma profondamente trasformativo.
Un’altra tecnica di largo uso è la ristrutturazione cognitiva. Conosciuta in ambito clinico come uno dei cardini della terapia cognitivo-comportamentale, permette di mettere in discussione convinzioni automatiche e visioni distorte della realtà. Se, ad esempio, un pensiero catastrofico prende piede – “Non riuscirò mai a gestire questa situazione” – l’abilità sta nel riconoscerlo come un pensiero, non come un dato di fatto. Gli psicologi si allenano ogni giorno a riconoscere la differenza tra realtà e interpretazione, e questa abilità, coltivata su di sé, diventa uno strumento potente anche nella vita privata.
Autocompassione, corpo e confronto: il trio invisibile
C’è poi un aspetto della regolazione emotiva spesso trascurato: l’autocompassione. In un mondo che premia la prestazione e la lucidità, anche tra i terapeuti può insinuarsi l’idea che mostrarsi fragili sia un segno di debolezza. Al contrario, la capacità di trattarsi con gentilezza, di accogliere l’errore o il disagio come parte dell’esperienza umana, è una delle competenze emotive più mature che uno psicologo può sviluppare. Non è “giustificarsi”, ma riconoscere il proprio bisogno senza scivolare nell’autocritica distruttiva.
Non solo mente: anche il corpo gioca un ruolo centrale. Tecniche di respirazione profonda, brevi camminate tra una seduta e l’altra, stretching consapevole o semplici pause rigenerative aiutano a rilasciare lo stress prima che diventi cronico. Gli psicologi sanno che le emozioni non vivono solo nella testa, ma si manifestano nel corpo, e per questo intervengono su entrambi i livelli, mentale e somatico.
Infine, c’è un elemento tanto fondamentale quanto invisibile: il confronto tra pari. La supervisione clinica, o in alcuni casi la propria psicoterapia personale, è parte integrante del lavoro di molti psicologi. È lì che trovano uno spazio per elaborare ciò che vivono, per raccontare ciò che non mostrano, per rimettere ordine quando il coinvolgimento emotivo rischia di compromettere la chiarezza professionale. In questo senso, chiedere supporto non è una fragilità, ma un segno di competenza e cura per sé stessi e per il lavoro che si svolge.
In conclusione, la regolazione emotiva, anche per chi lavora con le emozioni degli altri, è un processo fatto di attenzione, piccoli rituali quotidiani e una dose costante di onestà interiore. Non si tratta di “controllare” ciò che si prova, ma di imparare a dialogare con le proprie emozioni in modo costruttivo, umano e, soprattutto, continuo.