Perché diciamo “sto bene” anche quando non è vero? I motivi psicologici dietro la risposta automatica
Quante volte ti è capitato di rispondere “sto bene” quando qualcuno ti ha chiesto come stai, anche se dentro di te stava infuriando una tempesta emotiva? Non preoccuparti, non sei l’unico. Questa risposta automatica è così comune che merita un’analisi approfondita. Scopriamo insieme i meccanismi psicologici che si nascondono dietro questa piccola grande bugia quotidiana.
La risposta automatica che tutti conosciamo
La scena è familiare: incroci un collega nel corridoio dell’ufficio. “Ehi, come va?” ti chiede distrattamente mentre è già quasi passato oltre. “Tutto bene, grazie”, rispondi meccanicamente, nonostante la notte insonne, la discussione con il partner e la scadenza impossibile che ti aspetta sulla scrivania.
Questo automatismo è incredibilmente diffuso nella nostra società, e rappresenta uno dei modi più comuni con cui evitiamo di mostrare la nostra vera condizione emotiva. Ma quali sono le vere ragioni dietro questo comportamento?
La maschera sociale: quando “sto bene” è un biglietto da visita
Il sociologo Erving Goffman ha teorizzato il concetto di “facework”, riferendosi al lavoro che ciascuno di noi fa per presentarsi agli altri in modo positivo. Secondo Goffman, ogni interazione sociale è una sorta di rappresentazione teatrale in cui indossiamo maschere adeguate al contesto.
Dire “sto bene” funziona come una maschera sociale che ci permette di mantenere il controllo della nostra immagine pubblica, evitare di mettere in difficoltà l’interlocutore e rispettare le norme sociali non scritte. Come spiega la psicologa Susan David, autrice di “Emotional Agility”, le persone spesso sacrificano l’autenticità sull’altare dell’accettazione sociale. Dire che stai bene, anche quando non è vero, è un modo per evitare il rifiuto o l’imbarazzo.
Il rituale del “Come stai?” che nessuno ha mai decodificato
Parliamoci chiaro: quando qualcuno ti chiede “come stai?”, raramente è una vera richiesta di informazioni sul tuo stato emotivo. È più simile a un saluto ritualizzato, un “ciao” appena più elaborato.
La ricercatrice Kate Murphy, nel suo libro “You’re Not Listening”, ha evidenziato come molte delle nostre conversazioni quotidiane seguano script prestabiliti, con poca intenzione di ascoltare veramente. Il “come stai?” seguito dal “bene, grazie” è probabilmente il più diffuso di questi script conversazionali.
È interessante notare che questo scambio varia culturalmente. In Italia la risposta positiva standardizzata è molto diffusa, mentre in altre culture, come quella tedesca, vi è una maggiore propensione a risposte più dirette e meno filtrate dalle convenzioni sociali.
La fatica emotiva del raccontarsi veramente
Ammettiamolo: essere completamente onesti su come stiamo può essere estenuante. Se rispondessimo con sincerità ogni volta che qualcuno ci chiede “come stai?”, potremmo trovarci a gestire conversazioni lunghe e potenzialmente scomode, la vulnerabilità di mostrare le nostre debolezze e la responsabilità di coinvolgere emotivamente l’altro.
La psicologa Brené Brown, nota per i suoi studi sulla vulnerabilità, osserva che essere autentici richiede energia e coraggio. A volte, semplicemente non abbiamo le risorse emotive per affrontare quella vulnerabilità in ogni interazione sociale.
La dimensione neurobiologica: quando il cervello sceglie la via più semplice
Dal punto di vista neurobiologico, la risposta automatica “sto bene” è un esempio perfetto di ciò che gli scienziati chiamano “risparmio cognitivo”. Il nostro cervello è programmato per conservare energia, e le risposte automatiche sono un modo efficiente per farlo.
Secondo il neuroscienziato Daniel Kahneman, premio Nobel e autore di “Pensieri lenti e veloci”, il nostro cervello opera principalmente attraverso due sistemi: il Sistema 1 (veloce, automatico, emotivo) e il Sistema 2 (lento, riflessivo, logico).
Quando rispondiamo “sto bene” automaticamente, stiamo utilizzando il Sistema 1, risparmiando l’energia che il Sistema 2 richiederebbe per elaborare una risposta più autentica e complessa. È efficiente, anche se non sempre autentico.
Il paradosso dell’evitamento emotivo
Ironicamente, evitare di esprimere come ci sentiamo veramente può avere effetti negativi a lungo termine. La ricerca condotta dalla dottoressa Kristin Neff sull’auto-compassione suggerisce che riconoscere e accettare le proprie emozioni negative è fondamentale per il benessere psicologico.
Quando diciamo continuamente “sto bene” mentre soffriamo interiormente, stiamo essenzialmente negando la nostra esperienza emotiva. Questo può portare a un accumulo di stress e a un senso di disconnessione da se stessi.
La pressione sociale: quando essere “non ok” è un tabù
Viviamo in una società che idolatra la positività. I social media sono inondati di immagini di vite perfette, e la cultura del “buon viso a cattivo gioco” è profondamente radicata. In questo contesto, ammettere di non stare bene può sembrare quasi un fallimento personale.
- Le donne tendono a mascherare più spesso le emozioni in ambito lavorativo
- Gli uomini sono condizionati culturalmente a mostrarsi stoici
- Entrambi i generi temono il giudizio sociale quando mostrano vulnerabilità
Il sociologo Alain Ehrenberg ha definito questo fenomeno “la fatica di essere se stessi” – la pressione costante di presentarci come individui di successo, felici e in controllo. Secondo Ehrenberg, questa pressione contribuisce significativamente all’aumento di problemi di salute mentale nella società contemporanea.
Come superare l’automatismo del “sto bene”
Se ti riconosci in questo meccanismo e vorresti essere un po’ più autentico nelle tue interazioni, ecco alcuni suggerimenti basati sulla psicologia positiva e sulla mindfulness:
Prova l’autenticità graduale: non c’è bisogno di passare dall’essere totalmente chiusi all’essere un libro aperto. Inizia con piccole aperture in contesti sicuri. Potresti rispondere “Giornata impegnativa, ma ce la sto facendo” invece del solito “Tutto bene”.
Distingui tra richieste rituali e genuine: impara a riconoscere quando qualcuno ti sta chiedendo “come stai?” come semplice saluto o quando è veramente interessato alla risposta. Gli indicatori di interesse genuino includono il contatto visivo, un tono di voce calmo e l’assenza di distrazioni.
Crea un vocabolario emotivo più ricco: sviluppare un vocabolario emotivo più complesso contribuisce a una migliore regolazione delle emozioni. Invece del binario “bene/male”, potresti utilizzare termini più specifici come “energico”, “riflessivo”, “preoccupato ma speranzoso”.
Quando il “non sto bene” diventa liberatorio
Paradossalmente, ammettere di non stare bene può essere incredibilmente liberatorio. La ricerca sulla self-disclosure (auto-rivelazione) dimostra che condividere onestamente i propri stati emotivi aumenta l’intimità nelle relazioni e rafforza i legami sociali.
Gli studi confermano che una maggiore autenticità emotiva è associata a livelli più bassi di stress e a una migliore qualità delle relazioni interpersonali. L’onestà emotiva, pur richiedendo coraggio, può portare benefici significativi al nostro benessere psicologico.
La prossima volta che qualcuno ti chiederà “come stai?”, potresti fermarti un attimo prima di rispondere automaticamente. Forse scoprirai che anche solo una risposta leggermente più autentica può aprire la porta a connessioni più profonde e significative. In un mondo di “sto bene” automatici, l’autenticità – anche in piccole dosi – può essere sorprendentemente rinfrescante e liberatoria.