“Sto bene” è la bugia che ripeti ogni giorno: ecco cosa dice di te secondo gli psicologi

Il paradosso del “Sto bene”: Perché mentiamo quando ci chiedono come stiamo?

“Come stai?” “Sto bene!”

Quante volte hai risposto così, mentre dentro di te c’era un uragano emotivo? Forse stavi attraversando una giornata terribile, avevi appena litigato con il partner, o ti sentivi semplicemente svuotato. Eppure, come un automa programmato, le parole “sto bene” sono scivolate fuori dalla tua bocca quasi senza pensarci.

Questo piccolo rituale sociale, apparentemente innocuo, nasconde complessi meccanismi psicologici che vale la pena esplorare. La verità è che quasi tutti indossiamo questa maschera quotidianamente, anche quando la realtà è completamente diversa.

Il copione sociale che tutti recitiamo

La conversazione “Come stai? – Sto bene” è ciò che gli psicologi chiamano uno script sociale – un copione prestabilito che seguiamo quasi inconsciamente. Questi script servono come “lubrificanti sociali” che facilitano le interazioni quotidiane, senza costringerci a pensare troppo.

La maggior parte delle persone risponde automaticamente in modo positivo quando viene chiesta come sta, anche quando è l’esatto opposto della verità. Questa dinamica è universale, dalla British “stiff upper lip” al concetto giapponese di “honne” e “tatemae” (sentimenti reali vs. facciata sociale).

La “domanda-non domanda”

Parte del problema sta nel fatto che “come stai?” raramente è una vera domanda. È diventata un saluto, un equivalente di “ciao”, a cui non ci si aspetta una risposta autentica. Sono interazioni rituali che seguono regole non scritte ma universalmente comprese.

Quando qualcuno al supermercato o un collega in ascensore ti chiede come va, raramente è preparato per una risposta del tipo: “In realtà, sto attraversando una crisi esistenziale e ho pianto tre volte oggi.” La vera domanda implicita è: “Riconosciamo entrambi che ci siamo visti e che siamo esseri umani che interagiscono in modo civile?”

Le ragioni psicologiche dietro la maschera del “sto bene”

La gestione dell’impressione è un concetto fondamentale che ci spinge a presentare versioni idealizzate di noi stessi. La paura di essere giudicati negativamente porta molte persone a evitare di mostrare vulnerabilità, soprattutto in contesti professionali. Questo timore è particolarmente accentuato nella cultura italiana, dove “fare bella figura” ha un valore sociale significativo.

C’è poi il tema della vulnerabilità. La ricercatrice Brené Brown ha dimostrato come molti di noi equiparano la vulnerabilità alla debolezza. Gli uomini, più delle donne, sono spesso riluttanti a condividere emozioni negative per aderire a stereotipi di mascolinità. Questa tendenza attraversa culture diverse, ma con sfumature che riflettono valori sociali specifici.

Spesso scegliamo di rispondere “sto bene” anche per non gravare gli altri con i nostri problemi. Facciamo un calcolo inconscio: questa persona è pronta, disposta o in grado di gestire la verità? Spesso concludiamo che non lo è, riservando la nostra vulnerabilità a relazioni più intime e sicure.

L’auto-inganno del benessere

A volte, dire “sto bene” funziona come una forma di auto-convincimento. La teoria della dissonanza cognitiva suggerisce che tendiamo ad allineare i nostri pensieri e le nostre parole per evitare il disagio mentale.

Alcuni studi hanno dimostrato che ripetere affermazioni positive può influenzare l’umore, specialmente tra le persone con alta autostima. È il classico “fake it till you make it” applicato al benessere emotivo, anche se gli effetti variano notevolmente da persona a persona.

Il costo nascosto di nascondere come stiamo

Questa abitudine apparentemente innocua può avere conseguenze significative sul nostro benessere:

  • Isolamento emotivo: La soppressione abituale delle emozioni è associata a livelli più elevati di solitudine percepita.
  • Aumento dello stress: Nascondere come ci si sente aumenta l’attivazione del sistema nervoso simpatico, contribuendo a livelli più elevati di stress cronico.
  • Difficoltà relazionali: L’incapacità di comunicare vulnerabilità è uno dei predittori principali di problemi nelle relazioni intime.

Studi longitudinali hanno mostrato che la soppressione persistente delle emozioni negative è associata a un aumentato rischio di sintomi depressivi nel tempo. Il costo si accumula gradualmente, influenzando la qualità della nostra vita emotiva.

Il fenomeno nell’era dei social media

I social network hanno ulteriormente complicato il quadro. Siamo costantemente esposti a versioni idealizzate della vita altrui, aumentando la pressione a presentarci sempre al meglio. La maggior parte dei giovani tende a condividere sui social media prevalentemente gli aspetti positivi della propria vita, contribuendo a quella che gli esperti chiamano “spiral of silence” – una spirale di silenzio dove tutti fingono di stare bene perché tutti gli altri sembrano stare bene.

Come rompere il ciclo: verso un’autenticità sostenibile

Un approccio graduale all’autenticità può essere il più efficace: non devi necessariamente aprire il tuo cuore al barista o al collega che incroci in corridoio. Inizia a praticare l’autenticità con persone di cui ti fidi profondamente. Avere anche solo 2-3 relazioni in cui possiamo essere completamente autentici migliora significativamente il benessere psicologico generale.

Riconosci il contesto: esistono momenti appropriati per la vulnerabilità. L’autenticità non significa condividere tutto con tutti in ogni momento, ma essere consapevoli delle nostre emozioni e scegliere consapevolmente quando, come e con chi condividerle.

Ci sono modi per essere onesti senza sovraccaricare l’interlocutore. Frasi come “Ho avuto giorni migliori, ma ce la sto facendo” o “È un periodo impegnativo, ma sto trovando il modo di gestirlo” possono offrire un’autenticità dosata, aprendo potenzialmente la porta a conversazioni più profonde.

Un cambiamento culturale è in corso

La buona notizia è che le cose stanno cambiando. Le nuove generazioni valorizzano sempre più l’autenticità emotiva, considerando la capacità di mostrarsi vulnerabili come un segno di forza piuttosto che di debolezza. Questa evoluzione culturale potrebbe segnare l’inizio di un cambiamento significativo nel modo in cui gestiamo le nostre interazioni sociali e il nostro benessere emotivo.

L’autentica forza non sta nel nascondere ciò che proviamo, ma nell’avere il coraggio di riconoscerlo e, quando appropriato, condividerlo.

La prossima volta che qualcuno ti chiederà “come stai?”, prova a fermarti un attimo prima di rispondere automaticamente “bene”. Non significa che devi necessariamente condividere ogni dettaglio della tua vita emotiva, ma potresti considerare la possibilità di una risposta un po’ più autentica, almeno con le persone che contano davvero.

Perché a volte, ammettere che non stiamo proprio benissimo è il primo passo per stare davvero meglio.

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