Niente pinocchietti, canottiere o minigonne? Se preferite indossare magliette, camicie e jeans lunghi anche in estate, c’è un motivo, secondo la psicologia. Ecco di cosa si tratta.
Quando l’estate impone il suo dominio climatico e l’abbigliamento si alleggerisce, non mancano coloro che, invece, continuano a indossare magliette a maniche lunghe e jeans. Una scelta che, se osservata senza contesto, può sembrare illogica, ma che risponde a logiche complesse, radicate in dimensioni sia psicologiche sia pratiche. Sul piano strettamente fisico, coprirsi in estate ha effetti benefici. In effetti, indossare maniche lunghe può offrire una valida protezione contro i raggi UV, riducendo il rischio di scottature e contribuendo a rallentare l’invecchiamento della pelle. Inoltre, i tessuti traspiranti e leggeri favoriscono una regolazione efficace della temperatura corporea: non assorbono semplicemente il calore, ma ne ostacolano il contatto diretto con la pelle, permettendo al sudore di evaporare e di raffreddare l’organismo. Una pratica diffusa soprattutto tra chi trascorre molte ore all’aperto.
Ma l’abbigliamento lungo in estate è anche, e forse soprattutto, una forma di risposta a dinamiche psicologiche legate all’immagine corporea. La ricerca condotta dalle ricercatrici e autrici Marika Tiggemann e Rachel Andrew, pubblicata nel 2012 sulla rivista internazionale scientifica Body Image, ha mostrato come la tendenza a coprirsi aumenti proporzionalmente all’insoddisfazione verso il proprio corpo. Persone che si percepiscono in sovrappeso o che mostrano bassi livelli di autostima sono più inclini a scegliere abiti che nascondano le forme, per attenuare il senso di esposizione sociale e ridurre l’ansia legata allo sguardo altrui. Il fenomeno si accentua in estate, quando la norma estetica impone la scopertura e la visibilità.
Magliette e jeans lunghi: perché c’è chi non ama indossare indumenti corti in estate
Un ulteriore elemento di rilievo è rappresentato dalla teoria dell’enclothed cognition, formulata dai ricercatori Hajo Adam e Adam D. Galinsky e pubblicata nel Journal of Experimental Social Psychology nel 2012. Secondo questo modello teorico, l’abbigliamento non è solo espressione esterna ma anche strumento attivo che modella stati mentali e percezioni di sé. Indossare determinati capi – specialmente quelli percepiti come familiari, contenitivi o protettivi – può attivare sensazioni di sicurezza, competenza o tranquillità. Un effetto simile a quello esercitato da una “coperta di Linus”, particolarmente efficace in soggetti emotivamente vulnerabili o esposti a situazioni sociali stressanti.
A influenzare le scelte di abbigliamento intervengono poi anche tratti di personalità e fattori culturali. Uno studio condotto in Israele e pubblicato su Frontiers in Psychology nel 2021 (Styling the Self: Clothing Practices, Personality Traits, and Body Image Among Israeli Women, della dottoressa Tali Stolovy), ha rilevato che le persone con un profilo più introverso o con una bassa apertura all’esperienza tendono a optare per indumenti che garantiscano anonimato e contenimento. Al contrario, chi mostra un’immagine del corpo più flessibile e positiva è più disposto a sperimentare con i colori, i tagli e i materiali. In parallelo, la psicologa Juliana Scott, nella sua tesi di ricerca Fashion and Positive Psychology: Interactions Between Clothing, Mood, Self-Concept, and Well-Being (Ryerson University, 2015), ha sostenuto che l’abbigliamento può essere usato come strumento di coping. Indossare vestiti specifici diventa, cioè, in questa prospettiva, un modo per affrontare momenti di difficoltà emotiva, per definire i confini del sé, oppure per dissimulare il disagio.
Non solo una funzione pratica, ma anche simbolica
Infine, è rilevante il contributo di Nancy Aku Amekplenu, che in uno studio pubblicato sul Global Scientific Journal (Investigating the psychological effects of clothing choices on wearer’s mood, confidence and behaviour) ha esplorato gli effetti psicologici delle scelte di abbigliamento su umore, fiducia e comportamento. Secondo la ricercatrice, il valore dell’abbigliamento risiede non solo nella sua funzione pratica – copertura, comfort, versatilità – ma anche nel significato simbolico attribuito a ogni capo. Un indumento lungo, in questa chiave, non rappresenta solo una barriera fisica contro il sole, ma anche una dichiarazione implicita di riservatezza, autodifesa o identità.
Le motivazioni per cui alcuni scelgono di indossare magliette e jeans anche nei mesi più caldi non si riducono dunque a una semplice idiosincrasia. Piuttosto, rispecchiano una costellazione di bisogni e strategie – fisiologici, emotivi e culturali – che trovano conferma in studi internazionali sul rapporto tra abbigliamento e psiche. Dall’enclothed cognition di Adam e Galinsky, agli studi di Marika Tiggemann e Rachel Andrew sulla body image, fino alle ricerche di Juliana Scott e Nancy Aku Amekplenu, emerge un quadro coerente: l’abbigliamento è uno specchio della mente. E in alcuni casi, un vero e proprio scudo.